Il concetto di infinitesimo è forse fra i più dibattuti nella storia della logica, sia a livello filosofico che strettamente matematico. Quando Leibniz li introdusse come sostanziale traduzione del concetto di monade in ambito logico fu rivoluzione, poi per un secolo vennero accantonati e subordinati ai limiti per mancanza di rigore logico, salvo poi ricomparire nel secolo scorso nell’ambito dell’analisi non standard. Cosa c’entra tutto questo con la musica? Proprio a questa domanda che sorge spontanea vuole rispondere la canadese France Jobin, nota quei pochi già vicini alla sua longeva opera come I8U.
Il tentativo è quello di considerare ciascun singolo suono come fosse una particella, e dunque un infinitesimo di materia a dimensione zero: le tre lunghe digressioni di “The Illusion Of Infinitesimal” ne studiano l’interazione, andando in particolare a verificare la natura del presunto movimento rotatorio che lega i suoni stessi.
La ricerca, in realtà, non si discosta troppo dalle sperimentazioni degli ultimi allievi di Morton Feldman eTony Conrad (Phill Niblock in testa), ma a questo Jobin concilia pure il concetto di musica generativa, musica che si autocrea e autoproduce a cui il compositore fissa esclusivamente le coordinate-base, il sentiero da percorrere.
Il risultato di questa mediazione è dunque un lavoro di pura contemplazione sonora, che in sostanza va a collocarsi su quel sentiero di minimalismo ambientale da sempre tanto caro a Richard Chartier – non è un caso che il precedente lavoro a proprio nome di Jobin sia uscito, due anni fa, proprio per L_NE. “1/2” lascia estendere dunque un drone docile e liquido fino a raggiungere la massima estensione, e gioca con i livelli di volume sfruttandoli sostanzialmente come lente d’ingrandimento di un microscopio. Unica forma di intervento, resa quantitativamente dal titolo, sta nel sibilo che cerca ciclicamente di fare da acceleratore per le microparticelle sonore, senza però ottenere altro risultato dal “disturbare”.
In “0”, più breve e compatta, la velocità del moto sonoro si riduce ulteriormente complice la totale assenza di azione. I ventitré minuti di pura ambient-drone di “+1” aggiungono finalmente un po’ di sostanza alla forma, ma recuperando anche il legame con la realtà che gli scopi sperimentali dei due monologhi precedenti avevano finito col lacerare.
Vien da chiedersi dove possa portare questo proliferare di tentativi di lavorare sulla natura logica della musica prescindendo paradossalmente da ciò che la distingue da un puro succedersi di suoni: il sentimento. Jobin ci riesce, probabilmente suo malgrado, dando vita a una forma la cui gracilità melodica consente un ascolto suggestivo anche a chi volesse tenersi lontano dalla complessa dimensione concettuale su cui si fonda.
Matteo Meda